Buongiorno cari quattrocchi!
Oggi rinfodero gli occhiali e finalmente vi presento i tre romanzi che mi ha inviato Elle per il Gran Premio delle Lettrici.
Innanzitutto, come funziona questo gran premio?
Siamo 80 giurate in tutto, divise in otto giurie. A ogni giuria vengono assegnati 3 romanzi da leggere e commentare, tra i quali – in base al voto e al commento – verrà scelto il migliore. I migliori romanzi passano, quindi, alla fase successiva e vengono inviati alle altre giurate, così che possano essere votati e commentati da tutte. Al fine ogni giurata avrà letto e recensito la bellezza di 10 romanzi.
Io sono parte della terza giuria e i libri, arrivati poco prima di Natale, sono i seguenti:
Tre romanzi tutti al femminile, non solo scritti da donne, ma che parlano di donne.
Trattandosi dell’ultimo romanzo in fila, dell’ultimo romanzo che ho letto, ho pensato di partire da Io mi chiamo Miriam, lettura che trovo molto adatta per il periodo di gennaio/febbraio.
Il libro è capace di attirata già dalla sua forma insolita: la pagina stretta lo rende molto alto, e lo spessore la fa assomigliare a una scatola. Se lo avessi visto in libreria lo avrei sicuramente scelto, e anche se può sembrare difficile da tenere in mano, in realtà l’ho trovato molto comodo. Comodo anche da trasportare, perché nonostante sia spesso si incastra come un astuccio tra agenda, portafogli e tutto il resto.
Genere: storico, guerra, introspettivo.
Tre parole per descriverlo: intimo, rivelatore, coinvolgente.
Anno: 2016
La trama di Io non mi chiamo Miriam
Miriam compie ottantacinque anni, vive in una bella casa, in una cittadina tranquilla della Svezia, e ha una famiglia. Una famiglia che non le appartiene per davvero: Thomas è il suo figlio adottivo, di cui si è occupata sin da quando è nato a causa della morte per parto della madre. Ha un ottimo rapporto con la nipote, ormai grande, già mamma e impegnata a studiare per diventare medico, e un rapporto di tolleranza reciproca con la nuora.
Una famiglia normale, in fin dei conti, coi suoi alti e i suoi bassi. Miriam, però, si lascia sfuggire un commento proprio il giorno del suo compleanno: «Io non mi chiamo Miriam».
Da questa semplice frase inizia il nostro viaggio tra i ricordi di Miriam, che ha subito e mai superato veramente i traumi della prigionia nei campi di concentramento.
La verità in un romanzo di finzione
Forse questo commento vi scoraggerà, perché in un qualche modo noi lettori siamo spinti a dubitare dei commenti troppo positivi, ma penso davvero sia uno dei libri più belli che abbia mai letto, capace di emozionare, di far crescere.
La protagonista si ritrova a un bivio, vivere o morire, e anche ora, con l’età avanzata, il corpo un po’ più stanco e la sensazione di avere trascorso gli anni di qualcun altro, decide di vivere.
Un romanzo che, seppur di finzione, riesce a rappresentare la realtà, mostrando gli aspetti nascosti di un periodo cupo di cui ci si può solo vergognare.
La capacità dell’autrice di raccontare vicende spaventose e disegnare i pensieri della protagonista, si accompagna al grande talento di sapere cogliere piccole sfumature e renderle indispensabili. Una scrittura davvero coinvolgente che è stata capace di trattare della guerra e delle violenze senza sminuirle a semplice contorno, ma rendendole protagoniste loro stesse.
L’uscita di questo libro la trovo in perfetta sintonia coi tempi: abbiamo ancora bisogno di sentirci raccontare queste storie, e le nuove generazioni ne hanno bisogno più che mai. Nonostante si stiano facendo dei passi avanti, il tempo del razzismo, della xenofobia, della differenza di genere e delle fobie in generale, non è decisamente agli sgoccioli.
Questioni di genere: la figura femminile
Ci sono molte donne in questo romanzo oltre alla protagonista, e senza scordarci dell’autrice.
Ogni donna è diversa: sono forti, sciocche, adulte in corpi di bambine, testarde, speranzose, ma anche donne deboli che si fanno scudo con la violenza, come nel caso delle carceriere.
Al contrario, l’uomo è una comparsa: è il soldato delle SS, è il fratello, il padre che sbiadisce nei ricordi, un marito utile a stabilirsi in una vita serena.
Il racconto parte da Miriam e svolgendosi tra i suoi ricordi e il suo presente, tratta soprattutto della donna.
Nei lager si era divisi in base al genere, alla nazionalità, alla religione e anche fuori, negli anni successivi, il mondo degli uomini e delle donne restava diviso.
Casa e lavoro, amore e denaro: andando a stabilire un confine tra un animo dolce, debole, rappresentato dalla donna, e uno sostenuto, forte, di colui che deve farsi carico della famiglia.
Ma è veramente così?
Il romanzo ci insegna che sia donne sia uomini hanno debolezze e punti di forza, che entrambi possono essere degni di fiducia o causare dolore.
Ulteriori dettagli
Per leggerlo ho impiegato due settimane.
Non perché sia una scrittura pensate, ma per i contenuti: ho voluto darmi il tempo di digerirli, alcuni veramente difficili da scoprire.
Leggerlo in treno mi ha portata ancora di più nel romanzo, tanto che nei momenti in cui ne ero distante, ne sentivo ancora l’atmosfera. E nel vedere persone o nell’eseguire una semplice azione quotidiana, non potevo fare a meno di ripensare a certe pagine del libro.
Al termine del romanzo è inoltre presente una postfazione di Björn Larsson, che oltre a riportare le testimonianze dell’autrice stessa ci mostra, in breve, il panorama della letteratura legata alla Seconda Guerra Mondiale.
Anche questa una lettura interessante e da tenere presente per la valutazione di altri romanzi e scritti sul tema.
Qualcosa sull’autrice
Nata nel 1947 e vissuta a Nässjö, la cittadina in cui si svolgono le vicende del romanzo, oggi è scrittrice, drammaturga e giornalista; apprezzata in tutta la Svezia è stata tradotta in 23 lingue.
Di lei potrete sapere di più nella presentazione di Laura Cangemi, traduttrice per Iperborea editore.
Per oggi è tutto, quattrocchi. Fatemi sapere in un commento se lo avete letto e cosa ne pensate.
Noi ci vediamo la prossima settimana con la recensione di Mai più così vicina, che vi anticipo non sarà altrettanto positiva.
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