Ci sono libri semplici, che portiamo con noi sotto l’ombrellone (o l’ombrello, se siamo particolarmente audaci) perché ci tengano compagnia e ci aiutino a fare passare più velocemente il tempo libero.
Ci sono libri impegnati, manifesti che gli autori usano per lasciare il loro messaggio. Un’occasione per fermarsi a riflettere in un mondo che corre sempre più velocemente perdendo di vista la sua destinazione.
E poi c’è La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie.
Titolo originale: 世界の終りとハードボイルド・ワンダーランド (Sekai no owari to Hādo-boirudo Wandārando)
Autore: Haruki Murakami
Anno: 1985 (in Italia nel 2002)
Genere: Fantastico / Fantascienza
Tre parole per descriverla: identità, ricordi, sogni
Mi sono avvicinato alle opere di Murakami solo di recente, grazie ai consigli di un’amica (che ringrazio). Questa mia inesperienza, assieme alla particolarità dell’opera, rende piuttosto difficile scrivere una recensione che le renda onore.
Perchè?
La storia, oltre ai suoi contenuti assai peculiari, si divide letteralmente in due parti, dalle quali deriva il titolo del romanzo.
Il Paese delle Meraviglie
Siamo nel mondo reale… a prima vista. In esso si muove il protagonista (nonchè voce narrante), un Cibermatico, ossia un tecnico che si occupa di elaborare i dati informatici con uno strumento a dir poco particolare: la sua mente. Questo procedimento, chiamato shuffling, gli verrà richiesto da un bizzarro scienziato, nascosto in un bizzarro nascondiglio e dedito ad ancor più bizzarri esperimenti.
Come immaginerete da questa premessa, le similitudini con la realtà svaniscono rapidamente all’aumentare delle disgrazie del nostro protagonista: finiremo così per ritrovarci in mezzo a una guerra di spionaggio tra la Fabbrica e il Sistema, a esplorare la metropolitana cercando di non attirare l’attenzione degli Invisibili e a discendere nelle viscere della Terra evitando baratri colmi di sanguisughe e altri simpatici contrattempi.
Incomprensibile? Tranquilli, è pur sempre il Paese delle Meraviglie di carrolliana memoria!
La Fine del Mondo
La Fine del Mondo, invece, si mostra fin da subito come un luogo onirico. È un villaggio circondato da mura insormontabili, popolato da unicorni (ma dimenticatevi i festosi animaletti dei cartoni animati!) e protetto da un Guardiano il cui compito è assicurarsi che i visitatori lascino la propria ombra all’ingresso. È qui che giunge il protagonista, per svolgere il lavoro di lettore dei sogni. Come tutti, anch’egli lascia la propria ombra all’ingresso del paese, consapevole che in questo modo ella non sopravviverà al rigido inverno che si avvicina.
Ma l’ombra del protagonista è di tutt’altro avviso e coinvolge il nostro lettore nei preparativi per una fuga impossibile…
Qui la narrazione è, se possibile, ancora più fiabesca. Non vi è alcuna pretesa di riferimento alla realtà e le simbologie abbondano. Eppure, esattamente come al lettore di sogni manca la sua ombra, a noi lettori mancherà la chiave di lettura di questa “fine del mondo” per molto tempo.
Inutile a dirsi, questa chiave si trova nel Paese delle Meraviglie. I due luoghi sembrano separati tra loro e l’autore rafforza questa impressione alternandoli nella sequenza dei capitoli. Ma non dovremo attendere molto per comprendere che esiste un legame ben preciso: i mondi si influenzano, si definiscono a vicenda. Il finale ci rivela la natura di questo rapporto, ma con un po’ di attenzione si possono notare molte curiose similitudini, o richiami, nel corso di tutta la narrazione. Murakami ci lascia molti indizi da seguire lungo il percorso… e va perfino oltre.
Una bella morale
Con La Fine del Mondo e il Paese delle Meraviglie, Murakami ci regala una trama che ci terrà incollati al libro per il desiderio di dare un senso all’assurdo che si svela dinanzi ai nostri occhi. E contrariamente a quanto potremmo pensare, questa spiegazione non solo arriverà, ma lo farà anche prima del previsto. Non è mia intenzione fare spoiler, quindi mi limiterò a dire che scopriremo la verità sullo shuffling, gli unicorni e la guerra di spionaggio ben prima della fine del libro.
Nell’ultima parte del romanzo, invece, il ritmo degli eventi rallenta. L’autore lascia che il suo protagonista, e noi con lui, riprenda fiato, permettendo di soffermarci su dettagli prima trascurati e regalandoci dialoghi (interiori e non) davvero ben riusciti. Tutto per concentrare la nostra attenzione su un solo problema:
“Ero vissuto in questo mondo trentacinque anni, e non sapevo nemmeno il nome dei fiori piú comuni”
Nella nostra vita siamo continuamente circondati dalle piccole cose. Volti, frasi, oggetti che passano tra le mani o sotto gli occhi, scivolano in un piccolo angolo della nostra memoria e rimangono lì, ad aspettare l’oblio, anche se spesso non ci rendiamo conto che è la somma di queste piccole cose a fare una vita. Murakami dedica a questo pensiero le ultime pagine di un romanzo sulla memoria e sull’identità umana. Potrebbe sembrare un pensiero triste, carico di rimpianti, ma non è così. Al contrario, è un messaggio ricco di una speranza tutto sommato semplice, ma che non va data per scontata: la felicità è alla portata di tutti, dobbiamo solo aprire gli occhi e rendercene conto.
E il finale… no, non voglio dirvi altro. Posso solo promettervi che vi stupirà.
Data la particolarità dello stile di questo autore, credo sia doveroso concludere che questa è stata la mia chiave di lettura del romanzo. Murakami non è di certo un autore che si affronta alla leggera, ma sono le prove più impegnative a darci le soddisfazioni maggiori!
Non posso che concludere invitandovi a leggere questo splendido romanzo, a farvi la vostra opinione e, così, dare vita a un nuovo, piccolo ricordo che un domani potrebbe farvi riaffiorare un sorriso sotto la pioggia.
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