Il dolore fisico di un corpo non più giovane tormentato da numerose malattie che, in simbiosi l’una con l’altra, rallentano la vita e rendono epico ogni movimento e ogni azione quotidiana.
Il dolore dell’anima dovuto alla perdita di una madre adorata e a un amore conclusosi da più di trent’anni, i cui dolci ricordi sono ancora motivo di sofferenza.
La gloria ritrovata di un regista osannato dalla critica e dal pubblico che, a causa degli spettri dell’esistenza, aveva perduto ogni speranza.
Il supplizio e una nuova notorietà sono i due poli attorno ai quali ruota Dolor y gloria, il nuovo successo cinematografico di Pedro Almodóvar.
Il registra spagnolo, autore di importanti pellicole come Tutto sua mia madre, insignito dell’Oscar come miglior film straniero nel 2000, Volver, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Julieta e La mala educación, dirige, in questo nuovo e atteso lungometraggio, con sapiente maestria un fragile Antonio Banderas e una premurosa Penélope Cruz.
Non resta altro che vivere
Dolor y gloria, in concorso alla settantaduesima edizione del Festival di Cannes, è una sorta di film-confessione, una pellicola ricca di elementi autobiografici.
I malanni e gli acciacchi, che spaziano da emicranie quasi invalidanti alla sindrome di Forestier, di cui il protagonista Salvador Mallo (interpretato da Antonio Banderas) soffre, non sono altro che un riflesso dei dolori che accompagnano da tempo la vita di Almodóvar e ne rendono sempre più difficile il lavoro sul set.
Il legame tra il regista e l’attore protagonista, in questo lungometraggio, si è fatto ancora più saldo che mai. Dolor y gloria è l’ottavo film in cui queste due icone del cinema spagnolo lavorano fianco a fianco.
Ma a questo sodalizio artistico se ne aggiunge uno ancora più intimo, dovuto all’infarto che nel 2017 ha colpito Banderas e che, inevitabilmente, l’ha avvicinato sia alla persona di Almodóvar che a quella di Salvador Mallo.
In una quieta Madrid, Salvador è un registra sulla sessantina ritiratosi da anni dalle scene a cui, forse, non resta altro che vivere. Ma il restauro da parte di una cineteca madrilena di Sabor, la sua pellicola più famosa, fa riemergere un doloroso passato dal dolce retrogusto con il quale il protagonista deve far pace.
L’eroina della pace
La riconciliazione con Alberto Crespo, il protagonista di Sabor, trasporta Salvador in un mondo per lui sconosciuto: quello dell’eroina.
L’eroina permette a Salvador di affrontare le difficoltà fisiche e, grazie all’effetto stordente che il consumo di questa droga gli causa, di intraprendere un viaggio introspettivo nel suo passato, un cammino che lo riporta a rivivere la sua infanzia.
Il ruolo della madre tanto amata, Jacinta, che nei ricordi di Salvador appare come una donna forte, a tratti aspra, consapevole della povertà della sua famiglia, ma amorevole, è interpretato da Penélope Cruz, musa di Almodóvar e sempre superba in contesti drammatici.
A Paterna, piccolo villaggio della Comunità Valenciana, gli anni Sessanta timidamente si affacciano alla grotta dove Salvador trascorre la sua infanzia con la famiglia.
Salvador è un bambino provetto, un divoratore di libri e un maestro severo, soprattutto quando insegna a Eduardo, un muratore e abile disegnatore analfabeta, a leggere, scrivere e fare di conto.
Il legame con Jacinta è forte e rispettoso nei confronti della madre.
Jacinta è la raffigurazione di una Spagna antica, «una santa, cattolica e apostolica». L’attaccamento al cristianesimo è evidente non solo dal fatto che Salvador – a causa della povertà in cui versa la famiglia – per frequentare le scuole medie deve entrare in seminario, nonostante Jacinta sia consapevole dell’infelicità che questa decisione obbligata causerà al figlio, ma anche da una conversazione che i due hanno poco prima della morte della genitrice, ormai anziana, in cui la donna si assicura che il suo rosario preferito le venga messo tra le mani prima della cerimonia funebre.
L’eroina, per Salvador, non è solo uno strumento per alleviare le proprie sofferenze e rimembrare il passato; è anche il simbolo di un rapporto amoroso sofferto ma, al contempo, passionale: quello con Federico.
L’amore è una dipendenza
Nella Madrid degli anni Ottanta, Salvador conosce Federico, colui che diverrà l’unica persona che abbia mai amato in tutta la sua vita, la sua spalla ma anche la causa di molteplici dolori dell’anima.
Nella loro relazione consumeranno un amore passionale e struggente, segnato dalla dipendenza di Federico dall’eroina e scandito da alcuni viaggi in America Latina.
Questa relazione diviene il soggetto di una sceneggiatura, La dipendenza, che verrà messa in scena in un piccolo teatro della capitale spagnola da Alberto.
Nonostante Salvador si sia ritirato in un isolamento sociale e artistico, la passione per la scrittura e per il cinema non l’ha mai lasciato; negli anni ha continuato a redigere opere che, a causa della sua salute cagionevole, sono rimaste dei file salvati su un computer.
La dipendenza è un lungo monologo, portato sul palco solo con l’ausilio di una sedia e di uno schermo, attraverso il quale, Salvador si confessa e racconta della sua storia d’amore con Federico. Vi è quindi una duplice dipendenza, quella di Federico nei confronti dell’eroina e quella di Salvador nei confronti di Federico.
In occasione della prima i due amanti hanno occasione di rincontrarsi. Federico vive da anni in Argentina dove si è creato una famiglia. I suoi sentimenti per il registra sono rimasti immutati, ma la loro storia si esaurisce con un lungo bacio.
L’omosessualità del protagonista risulta molto più vivida ed evidente nei ricordi legati alla sua infanzia: quando arriva a Paterna, Salvador rimane impressionato dalla bellezza di Eduardo e, incantato, lo fissa mentre tinteggia un muro.
La scoperta da parte del piccolo Salvador della propria sessualità è un continuo crescendo che raggiunge il proprio culmine in una delle ultime scene del film, una sequenza di fotogrammi ricca di pathos.
Mentre Salvador porge un asciugamano a Eduardo che, ancora nudo, ha appena fatto un bagno nella grotta dove il protagonista vive con i genitori, il tempo all’improvviso rallenta, e il bambino rimane estasiato alla vista del corpo del giovane muratore.
L’asciugamano scivola dalle sue mani e lui perde i sensi.
Lo svenimento di Salvador viene imputato a un colpo di calore, ma è un ingegnoso escamotage atto a indicare che, in quella precisa situazione, Salvador ha compreso e accettato la propria omosessualità.
Almodóvar ha sempre miscelato con maestria autobiografismo e finzione cinematografica, tanto da rendere estremamente labile il confine tra questi due elementi. L’uno sfocia nell’altro e diviene difficile stabilire dove la componente biografica si sostituisce al genio del regista.
In Dolor y gloria, presente e passato – sia quest’ultimo lontano, legato alla fanciullezza, o recente – si intrecciano in un continuo divenire, scandito dalle note di una delle più belle canzoni che Mina ha interpretato nella sua carriera: Come sinfonia.
Proprio come in una sinfonia, Pedro Almodóvar, attraverso un finale a sorpresa – e sorprendete – chiude alla perfezione il cerchio. Nella scena conclusiva, la memoria dell’infanzia, l’affetto per la madre e la necessità, per Salvador Mallo, di tornare sul set si incastrano alla perfezione.
Tu, Quattrocchi, ha visto Dolor y gloria?
Sei rimasto estasiato dalla bellezza di questo capolavoro di Pedro Almodóvar?
Di Almodovar mi è piaciuto molto anche Julieta: l’hai visto?
Sì. Anzi, è ora di rivederlo.
Rivedi anche quest’altro capolavoro, non te ne pentirai: https://wwayne.wordpress.com/2019/04/06/combattere-per-un-ideale/. Grazie per la risposta! 🙂