E se la tv fosse solo uno specchio scuro che riflette la nostra realtà?
Ce ne parla Damiano Garofalo (Roma, 1986), assegnista di ricerca presso l’Università Cattolica di Milano e docente di storia dei media e della televisione presso le Università di Padova, Udine e La Sapienza, che da sempre si occupa del rapporto che intercorre tra i media e la società.
Nel suo saggio Black Mirror – Memorie dal Futuro (Edizioni Estemporanee, 2018) analizza una serie controversa e di grande successo.
Il rapporto tra linguaggio radiotelevisivo e società, te ne sei occupato sia per quanto riguarda gli anni ‘50 e ‘60, sia per la contemporaneità: ci puoi presentare il tuo lavoro di ricerca?
Avendo una formazione di tipo storico sono sempre stato interessato al rapporto tra media audiovisivi e società. Per questo, all’inizio del mio percorso di studi mi sono occupato del rapporto tra media e storia, con particolare riferimento alle rappresentazioni della storia al cinema e in televisione. Poi, in occasione del dottorato di ricerca, sono passato allo studio dei pubblici popolari della televisione italiana delle origini (sicuramente il tema a cui, a oggi, sono più legato).
Per ragioni soprattutto didattiche, mi sono poi occupato anche di serialità televisiva, per lo più da un punto di vista storico – ed è qui che nasce il mio interesse per Black Mirror che, oltre che dal punto di vista narratologico, è un prodotto che mi interessa soprattutto sul piano teorico. Al momento, invece, mi sto occupando di un progetto di ricerca sulla circolazione contemporanea dell’audiovisivo italiano all’estero. A ben vedere, penso che ciò che ha sempre tenuto uniti i miei studi non sia stato tanto l’oggetto di ricerca in sé, quanto, appunto, il metodo e l’approccio che ho sempre scelto di utilizzare.
Nel tuo nuovo saggio Black Mirror – Memorie dal Futuro, come conduci l’analisi di una serie così controversa e di successo?
Innanzitutto, a partire da un necessario distacco dall’oggetto di studio. Black Mirror non mi ha mai convinto fino in fondo da spettatore. Soprattutto nelle prime stagioni, infatti, riscontro una vena di fondo pessimista e moralista che m’infastidisce. Nonostante questo, l’ho sempre trovata una serie più interessante che emozionante.
Vista la forte portata didascalica dei singoli soggetti di puntata, ho deciso di iniziare il libro con un breve capitolo più “teorico”, che potesse introdurre i macro-temi della serie e che mi permettesse di “appesantire” di meno il resto della narrazione. Per il resto, ho declinato in tre grandi temi – il rapporto tra l’uomo e la tecnologia, le riflessioni sulla memoria, i dispositivi di controllo – le riflessioni che mi hanno suscitato gli episodi, tentando di fare un collegamento tra le singole puntate e restituire, dunque, un punto di vista organico sulla serie.
Che rapporto intercorre tra la realtà contemporanea e gli episodi della serie?
La chiave di Black Mirror, mi pare, sia quella di raccontare non tanto una realtà dispotica o futuribile, quanto un mondo decisamente verosimile al nostro. Molti episodi, del resto, sono costruiti su esiti dovuti a una eccessiva delega dell’uomo alla tecnologia che si sono già rivelati nella società – mentre in altri casi è stata la stessa “realtà” a seguire naturalmente la finzione. Proprio nel fatto di essere così profondamente radicata alla società in cui viviamo risiede, secondo me, il successo globale della serie – che poi è anche il motivo che la rende, come dicevo prima, più interessante che effettivamente convincente.
Nel tuo libro spieghi che come Ai confini della realtà (The Twilight Zone, 1985-1989) e Alfred Hitchcock presenta (Alfred Hitchcock Presents, 1955-1962), Black Mirror non è una serie continuativa dove è presentato il susseguirsi delle vicende degli stessi personaggi ad ogni episodio, ma antologica, cioè ogni episodio è un mini-film a sé stante: secondo te come mai questa forma televisiva si presta particolarmente a serie dai toni più oscuri?
Credo che sia dovuto all’incapacità di una serie senza memoria narrativa di far affezionare gli spettatori ai singoli personaggi, all’impossibilità, cioè, di creare un’empatia continuativa tra chi guarda e chi è guardato. In questo modo, ci immedesimiamo sempre più alle situazioni che alle vite dei personaggi raccontati. E, andando avanti, ci aspettiamo sempre qualcosa che ci sconvolga, che ci faccia più paura, che ci susciti una riflessione che possa oltrepassare il nostro pensiero e la nostra immaginazione.
Quali altri prodotti televisivi stanno attirando ora la tua attenzione? Ci sono nuovi progetti in vista?
In questo preciso momento sto seguendo, a dir la verità un po’ a rilento, diverse serie contemporaneamente: Dark, la serie tedesca prodotta da Netflix; The Deuce, una produzione HBO con James Franco che mi sembra veramente ben fatta; la prima stagione di Feud, sul rapporto tra Bette Davis e Joan Crawford durante la lavorazione di Che fine ha fatto Baby Jane?. La cosa che ho più amato lo scorso anno è stata la quarta di Twin Peaks – un capolavoro senza senso su cui, prima o poi, mi piacerebbe scrivere qualcosa.
E, a proposito di novità, anche noi di Parola di Quattrocchi stiamo leggendo il tuo saggio. E tra un po’ uscirà la recensione… Agitato?
È sempre bello ed edificante quando qualcuno ti dedica del tempo e dimostra interesse per il tuo lavoro. Ma, ad essere sinceri, non potrei reggere mai e poi mai una recensione negativa da Parola di Quattrocchi. Dunque, vi avviso: potrei venirvi a cercare… agitati?