Una delle prime volte che ho sentito parlare della vicenda dei processi di Salem è stato quando, da ragazzina, guardai in televisione un film in proposito. Non ricordo bene neanche il titolo, non mi piacque. Ricordo solo che le ragazze protagoniste, le perseguite, passavano quasi dalla parte del torto, come se “se la fossero cercata”. Come a voler implicitamente sottolineare che se fossero rimaste taciturne e morigerate, niente di male sarebbe accaduto. Per questo ringrazio particolarmente Thomas Gilbert e la Diabolo Edizioni che hanno pubblicato “Le Figlie di Salem”: una graphic novel che rovescia completamente questa prospettiva e restituisce alle vittime il ruolo e la memoria che a loro spetta.
“Le figlie di Salem”: disegni crudi per una storia da non dimenticare
Ho scoperto questo volume grazie ad una recensione di Fumettologica, le cui parole mi hanno colpito molto:
Le figlie, non le streghe o chissà quale altro appellativo più colorito o carico di folklore. Figlie, donne normali
Chi si aspetta qualcosa di fantastico, dark e soprannaturale è meglio che ripieghi su Le terrificanti avventure di Sabrina su Netflix, perché “Le figlie di Salem” non è niente del genere.
I colori sono tenui nelle scene allegre, scuri e aggressivi nei momenti drammatici. Le visioni demoniache dei testimoni del processo sono esplicite in tutta la loro perversione. Le figure non sono bellissime e perfette come in un fumetto di supereroi, sono semplicemente umane. Più si avanza nella trama, più sono contorte dal dolore, dalla rabbia, dalla paura.
Il reverendo Parris, principale accusatore, diventa fisicamente più grande quanto più montano la sua foga e la sua psicosi: con il suo mantello nero sovrasta le interrogate come un temporale. Dalla parte opposta, il gesto più significativo della vivacità innocente della protagonista, Abigail, è quello di togliersi la cuffia e lasciare i capelli sciolti al vento.
Ignoranza più paura uguale psicosi
Come avrete capito, “Le Figlie di Salem” è un fumetto profondamente femminista, che si occupa di spiegare con il racconto e l’immagine cosa accade quando l’ignoranza si nutre di sé stessa e degenera in superstizione, paura e mania. La prima vittima della psicosi di massa a Salem è la locanda di Bridget Bishop e sua madre. Irlandesi, cattoliche, “provocanti” (???). Molti del villaggio vanno a ubriacarsi lì ogni sera, ma se il reverendo dice che è lì che si insedia il maligno, allora la locanda va bruciata.
Ad Abigail e alle sue coetanee appena adolescenti viene buttata addosso la colpa di essersi sviluppate fisicamente. Dicono loro che sono diventate oggetto di peccato, anche se non sanno perché o come. Quello che accade a Salem nel XVII sec. non è niente di diverso da quanto possiamo vedere nella vita di tutti i giorni: la paura del diverso. Quando decidono di rifugiarsi nei boschi per sentirsi libere, fanno amicizia con i nativi, quando alzano la voce contro gli uomini del villaggio, escono dagli schemi. Diventano pericolose.
Dopo il climax finale delle esecuzioni, la storia si conclude nel tragico modo che immaginiamo quando parliamo di streghe nel Seicento. Tuttavia l’augurio finale è la chiave di volta dell’intero fumetto: che questa storia non sia dimenticata.
A tutti coloro che come me sono chiusi in casa in quarantena e hanno tanto tempo a disposizione per leggere, consiglio di procurarsi “Le Figlie di Salem”, per evitare che dilaghi un altro genere di contagio…