Lo Smart Working fa parte di Quattrocchi da quando è nato.
Io e Arianna abbiamo sempre abitato in città diverse, quindi abbiamo sempre sfruttato ogni mezzo digitale possibile per riuscire bene nel nostro lavoro.
Come tanti, ora mi ritrovo a lavorare da casa anche per la mia occupazione principale e qualcosa non quadra: ho passato alcuni momenti di panico e disagio da Smart Working.
E ovviamente la prima cosa a cui ho pensato è scriverci uno Zoom Mate.
Ho bisogno di confrontarmi con voi per sentire punti di vista diversi e capire cosa non funziona.
Smart Working: un mondo di distrazioni
Il mio primo giorno di Smart Working è stato quasi surreale.
Nel momento esatto in cui mi sono seduta sulla sedia il gatto, Zorro, ha iniziato a giocare con i pacchetti di fazzoletti, le calze stese e qualsiasi cosa facile da spostare.
In realtà lui è stato anche bravo, dopo questo momento di follia si è messo tranquilla a dormire sul letto, e sì, l’ho percepito come uno sfottò nei miei confronti,
I vicini, invece, hanno iniziato a trapanare le pareti alle otto e mezza di mattina, per terminare alle quattro.
In pratica ho lavorato nel silenzio per un’ora e mezza: non male.
A questo si aggiungono una serie di piccole cose:
- la sedia non è per niente ergonomica: mi sento rattrappita come un foglio di carta nel cestino;
- ovunque mi giro, vedo dei lavori da dover fare in casa e si sommano nella mia To Do List mentale della giornata;
- la pausa pranzo improvvisamente si è accorciata. L’ora che prima avevo, sembra essersi ridotta a venti minuti, tra il cucinare e il lavare i piatti;
- e dalla finestra mi arriva la voce metallica di un megafono che avvisa di restare in casa, secondo quanto stabilito dalle norme. Ho avuto un brivido alla 1984.
Tutto questo però non mi quadra a pieno.
È davvero colpa dello Smart Working o più che altro il fatto di non essere preparati per una cosa del genere?
O ancora, che in realtà andare in ufficio mi aiuta e magari mi piace pure?
Ufficio vs casa: creazione di ambienti e scomparti mentali
Per tutta l’università ho studiato a casa, perché quando studiavo avevo bisogno di spazio e a volte di ripetere a voce alta. Cose che in biblioteca fatichi a fare.
Però mi era venuto spontaneo andarmi a cercare uno spazio che non fosse camera mia.
Questo perché passando tante ore in casa, avevo bisogno di definire quale fosse il luogo per lo svago e quale per il lavoro.
Durante il liceo avevo già provato la sensazione di sentirmi stretta camera mia, e non volevo ripetere l’errore.
Quindi studiavo in cucina, così da tenere gli spazi del salotto e della camera dedicati al relax.
Questa creazione di ambienti mi aiuta anche a definire gli scomparti mentali per i diversi impegni.
So che passerò quelle ore in quel determinato spazio, per svolgere determinate attività. Una volta uscita dallo spazio, potrò dedicarmi a tutto il resto.
Ragiono con più ordine possibile, per essere certa di non accavallare le cose.
Perché in effetti mi piace tenermi impegnata e di cose me ne assegno parecchie in una giornata.
Questa cosa del crearsi un ufficio separato dal resto della casa non coinvolge solo me, è più che altro un’abitudine mentale a cui siamo soggetti.
I miei sono agenti immobiliari, e non è raro vedere nelle piantine delle case una stanza definita come “studio”: una cosa che mi ha sempre fatto pensare a tutti quei liberi professionisti che anche a orari impensati si ritrovano a rispondere ai clienti. Avere uno spazio in cui puoi tenere in ordine il lavoro, non è da sottovalutare. Così come ho notato che negli anni molti creator, di YouTube tanto quanto Instagram e blog, hanno aperto uno spazio in cui poter lavorare con serenità.
Alcuni di loro lo hanno definito un sogno che si avvera, o comunque ne hanno parlato come una sorta di liberazione: finalmente ho un posto dove chiudere le faccende di lavoro e da cui uscire quando non ne posso più.
L’azienda mi dà un nuovo standard
Alla propensione di voler tenere le faccende separate, va unito un dettaglio non indifferente: la mia azienda mi vizia. O meglio, mi dà un nuovo standard a cui è facile adeguarsi.
Dal parcheggio aziendale custodito alla mensa che mi fa trovare tutto pronto.
Il punto non è che dovrei trovare queste cose ovvie, a cui tutti abbiamo diritto, ma il fatto che mi trovo bene dove lavoro. Un aspetto che non dipende solo dal piano welfare aziendale.
Insomma, nel mio caso non penso sia tanto colpa dello Smart Working se in questi primi giorni mi sento tanto scombussolata.
È più che altro la modalità con cui ci siamo ritrovati a lavorare da casa, cosa necessaria e giusta (#iorestoacasa), e che come ogni altro cambiamento richiede un po’ di flessibilità.
Anche perché lavorare a casa ha anche i suoi vantaggi:
- mi concedo della pet therapy quando sono sovraccarica di cose da fare. E anche se Zorro dopo un po’ cerca di sgusciare via, so che tanto veglierà sulla mia giornata stando sul letto;
- non uso la macchina. Questa cosa mi fa sentire bene, perché io la uso per andare a lavoro dal momento che non ho grandi alternative per arrivare dritta in azienda. Ma so che usarla meno fa bene all’ambiente e questo mi rasserena;
- mi sto godendo la nostra casa. Siamo qui da novembre e tra i fine settimana da una parte, i giri dall’altra e le giornate di lavoro, non sentivo di essere stata ancora dentro a casa mia. Non so quanto durerà questo idillio, ma intanto me lo godo.
A questo punto aggiungo subito alla To Do List il primo compito della prossima settimana: cambiare prospettiva, adattare il modo con cui ho lavorato in questi mesi in ottica Smart Working.
E tu, Quattrocchi? Come vivi il lavoro da casa? Cosa ne pensi?